“ Il ricordo muore con le persone, la memoria invece vive perchè si tramanda dai testimoni diretti a coloro che hanno ascoltato che diventano così a loro volta i nuovi testimoni”. Con queste parole illuminanti e dense di significato Piero Terracina, classe 1928, ha concluso il racconto della sua vita di giovane ebreo che ha vissuto l’umiliazione delle leggi razziali e la cattura e la conseguente deportazione da Roma a campi di sterminio di Auschwitz – Birkenau. “Il Confine della libertà” era il titolo dell’incontro che si è svolto al Teatro Magnani di Fidenza martedì 22 giugno e che è stato possibile grazie al prezioso lavoro del Gruppo Scout Fidenza 2 e di Michele Scaramuzza che ha spiegato il lavoro svolto negli ultimi tre anni dai giovani Scout per capire direttamente dai testimoni cosa è successo in quei drammatici anni del secolo scorso “per capire e non dimenticare”: visitando i campi di sterminio e ascoltando gli ultimi testimoni che con coraggio raccontano l’orrore che hanno vissuto come è avvenuto con Tatiana Bucci lo scorso anno sempre qui a Fidenza e con Piero Terracina oggi.
Dopo i saluti iniziali del Sindaco di Fidenza Andrea Massari, Giovanna Grenga che segue il “Progetto Memoria”, ha ringraziato per l’invito e ricordato quanto sia mai ancora attuale la domanda: “dove si trova oggi il confine della libertà?”.
“Sono stato all’inferno, nella fabbrica della morte – ha detto Piero Terracina – ed oggi vi racconterò quello che è successo anche se per me è sempre una grande sofferenza farlo e lo sarà anche per voi ascoltarlo. Nei campi di sterminio sono state uccise 11 milioni di persone, dei quali 6 erano ebrei. Dietro ognugno di loro c’è un volto, uno sguardo, una storia, una famiglia: un essere umano che ha visto cancellare la sua vita e la sua dignità. Questa tragedia è iniziata per me all’età di nove anni, nel settembre del 1938, con il rientro a scuola dopo le vacanze estive. Ero molto felice di rivedere i miei compagni e la mia maestra che mi aveva sempre voluto molto bene. Al momento dell’appello sul registro non c’era più il mio nome e la maestra mi disse che non potevo più stare in quella scuola in mezzo ai miei amici. Venni così allontanato subito, lo stesso avvenne anche per i miei fratelli. Erano state da poco approvate le leggi razziali in Italia. Mi chiedevo perchè non potevo più vedere i miei amici, che ben presto sparirono dalla mia vita. Andai a frequentare così una scuola per soli ebrei e in quelle aule incontrai altri bambini che divennero poi gli amici della mia vita. Quando tornai dall’inferno, dai campi di sterminio, solo e disperato, furono le persone che mi accolsero. Nella mia famiglia eravamo in otto morirono tutti. La vita a scuola tutto sommato passava abbastanza normale grazie soprattutto al preside Nicola Cimmino, persona straordinaria, mentre in casa la situazione peggiorava di giorno in giorno. Mio padre perse il lavoro, facevano di tutto per rendere la nostra vita di cittadini italiani impossibile. Ci confiscarono la radio, ci venne vietato di andare al mare, di avere attività di commercio al minuto, di far parte di associazioni culturali o sportive, non potevamo pubblicare libri, ricerche o articoli. Roma venne occupata dai Tedeschi dopo l’armistizio dell’otto settembre del 1943. Il 16 ottobre la Gestapo e l’esercito circondarono il ghetto e con gli elenchi alla mano portarono via tutti i presenti. La nostra famiglia si salvò grazie a mio padre che ci fece scappare poco prima. La sera del 7 aprile 1944, festa della pasqua ebraica, eravamo riuniti nella casa dove eravamo nascosti per pregare e festeggiare quando arrivò la Gestapo: urlavano in tedesco e ci diedero 20 minuti per uscire con le nostre cose personali e tutti gli oggetti di valore. Un italiano, il delatore, gli accompagnava. Ci portarono al carcere di Regina Coeli e ci schedarono e forzatamente ci prelevarono le impronte digitali. Nel momento in cui ci ritrovammo, mio padre guardò noi bambini negli occhi e ci disse: “possono accadere cose terribili, mi raccomando qualsiasi cosa succede siate uomini e mantenete la dignità”. A 15 anni non volevo morire, in cella ero con mio padre ed altri detenuti che ci fecero coraggio. Erano meravigliosi, divisero con noi il cibo. Quanta umanità nelle carceri. A sera ci fecero salire sui camion e ci condussero a delle caverne fuori Roma dove ci chiesero di fare i nostri bisogni perchè dovevamo viaggiare tutta la notte. Ci misero su dei treni, come bestie, e ci condussero al centro di Fossoli a Modena . Lì vidi uccidere per la prima volta. Un ufficiale della Gestapo sparò alla tempia ad un uomo che conoscevo. Ci portarono poi alla stazione di Carpi dove partimmo in treno, dentro a vagoni per il bestiame. Eravamo in seicento ed avevamo molto caldo. Alla stazione di Verona non ci fecero bere, mentre scendemmo a quella di Trento dove potemmo anche bere. Viaggiammo ancora per due giorni fino alla Baviera dove la Croce Rossa di accolse con una zuppa. Lavarono i treni con gli idranti prima di ripartire per Auschwitz – Birkenau dove arrivammo due giorni dopo. Al nostro arrivo vedevamo delle ciminiere con delle fiamme, pensavamo che fosse una fonderia. Sulla banchina ad attenderci c’era la Gestapo con i cani. Ci fecero scendere tra le urla. Le aggressione sia dei cani che degli uomini con il bastone. Fu una violenza inaudita. Mamma ci abbracciò e piangendo si raccomandò di seguire le indicazione dei soldati nazisti. Fu l’ultima volta che vidi mia mamma e mia sorella. Gli uomini furono divisi dalle donne in due banchine distinte dove ufficiali medici esaminavano tutti e decidevano chi veniva subito mandato ai forni crematori e chi invece ai lavori forzati: ogni cento persone circa ottanta venivano inviati ai forni e venti alle baracche per i lavori forzati. Arrivarono quindi dei camion dove ci fecero salire. Poi ci spogliarono nudi, ci rasarono completamente e ci lavarono. Ci fecero quindi una puntura i ci passarono un liquido con il pennello su tutto il corpo. Se oggi sono qui devo ringraziare un uomo, italiano, che sulla banchina mi disse di dire alle “SS” che avevo 18 anni e non 15 come in realtà. Lo ascoltai e mentì sulla mia età. Chi aveva meno di diciotto anni veniva infatti inviato alle camere a gas. Ci fu detto subito che non avremmo rivisto i nostri famigliari e che il fumo che usciva dai camini erano loro. Raccontare Auschwitz, dove morirono un milione e mezzo di persone, vuol dire descrivere l’orrore più malvagio. Io mi limito a dirvi come avveniva la mia giornata tipo. Il mio nome era stato cancellato completamente e venivamo chiamati con il numero che avevamo tatuato sul braccio sinistro. Il mio era: A5506. La sveglia era alle quattro e mezza del mattino, le baracche erano comandate da altri prigionieri con compiti di guida i cosidetti Kapò. Avevano un bastone e dei privilegi che mantenevano solo se erano cattivi e senza pietà con gli altri. Dopo il lavoro tornavamo alle baracche ma prima c’era l’appello. L’appello poteva durare ore se qualcuno mancava. Questo accadeva quando morivano gli internati. Di notte poteva arrivare la selezione, i soldati entravano e urlando accendevano la luce, ci facevano scendere dalle brande. Decidevano chi doveva uscire, che voleva dire la morte alle camere a gas, e chi invece poteva restare. Questo avveniva quando arrivavano treni con deportarti e bisognava fare posto ad altri. Di fianco all’ingresso c’erano le forche dove avvenivano le impiccagioni alle quali dovevamo assistere. Era poi normale morire di fame, come avvenne per mio fratello. Vidi la fine degli ebrei ungheresi. Erano 450 mila. I forni non bastavano. Fecero delle enormi buche e ci li buttarono dentro dopo averli uccisi con il gas. Mi fermo qui e vi invito a riflettere sui meccanismi che hanno reso possibile questo drammatico e gigantesco sterminio, perchè quello che è accaduto può ripetersi. Perchè tanto odio allora? Perchè tanto odio oggi? La libertà è di tutti o di nessuno e la sua difesa spetta a tutti. Tornando a casa parlate alle persone che vi sono vicine dell’incontro avuto oggi”. Al termine dell’incontro i saluti e i ringraziamenti di Amedeo Tosi, Presidente del Consiglio Comunale.