Si è concluso sabato 26 Aprile l’incontro promosso dal Gruppo Scout Fidenza 2, con il patrocinio e la collaborazione dell’amministrazione del Comune di Fidenza, si ringrazia il Sindaco Andrea Massari e il Presidente del Consiglio Amedeo Tosi . Ringraziamo anche la collaborazione con l’ANED di Verona, l’ANPI di Fidenza e l’Accademy Basket per averci messo a disposizione il Palazzetto Don Bosco.
Ennio Trivellin nel 1944 aveva sedici anni e frequentava l’Istituto Tecnico “Galileo Ferraris” di Verona. Era un giovane come tanti: curioso e attento a quello che succedeva nel mondo intorno a lui con la volontà di mettersi in gioco in prima persona per cambiare le cose. Allora Verona era occupata dall’esercito tedesco ed in quel contesto storico Ennio entrò nella resistenza partigiana come staffetta all’interno della città. Scelta
che pagò duramente, quando il 2 ottobre del 1944, venne arrestato dalle polizia politica fascista e dalle “SS” tedesche. Inizia così la vicenda umana e storica che Ennio Trivellin ha spiegato con grande lucidità ed emozione ai giovani studenti delle scuole superiori di Fidenza presso il Palazzetto don Bosco.
Davanti a lui il tavolo con il microfono ed una coperta a righe verticali bianco azzurre come la casacca che portavano i deportati a Mauthausen con dei triangoli di vari colori per definire subito come era stato inquadrato il detenuto: “giallo” per gli ebrei; “rosso” per la politica; “blu” per gli apolidi; “viola” per gli zingari; “rosa” omosessuali e “nero” per tutte le altre categoria sociali non ammesse dalle legge razziali.
“Assieme a me catturarono anche mio padre – ha continuato Trivellin – venni dichiarato prigioniero pericoloso, etichettato con il triangolo rosso e trasferito nel forte di San Leonardo e da li al campo di concentramento di Bolzano. In quel posta vidi molte madri con i loro figli. Erano le famiglie degli uomini Ladini che erano state catturate perchè i loro mariti si erano rifiutati di combattere per l’esercito tedesco. A Bolzano ritrovai mio padre e grazie alla sua professione di falegname fummo utilizzati per vari lavori di manutenzione a servizio del campo e alla costruzione del portone del lagher. Li appresi che grazie all’opera di un sacerdote e di altri cittadini una rete di sostegno inviava pacchi alimentari ai prigionieri, fingendosi familiari, alimentando così quella rete di solidarietà pratica e psicologica fondamentale in quei momenti.
Il 20 novembre dopo l’appello del mattino mi caricarono su un carro ferroviario assieme ad altre sessanta persone con destinazione i campi di concentramento oltre alpi. Mio padre che temeva quel momento mi aveva affidato a due altri veneti originari di San Donà di Piave: Rizzo e Baron. I quali mi presero in custodia come un figlio. Fu un viaggio tremendo che durò tre giorni tra i pidocchi ed il tormento e la paura per quello che ci aspettava. Arrivati a Mauthausen ci spogliarono nudi, ci rasarono, insaponarono e lavarono con un getto di acqua prima di assegnarci il numero di matricola, i pantaloni ed il camicione a righe bianche e blu ed un paio di zoccoli. In pochi istanti cessai di essere Ennio Trivellin per diventare invece lo “stuck”, cioè il pezzo di ricambio, numero 110425, assieme al triangolo rosso. Poi quella scritta: “arbeit macht frei” cioè “il lavoro rende liberi” che vidi alla fine della scalinata che conduceva al livello superiore del campo.
Avrei capito successivamente che l’unica libertà concessa la dentro, per uscire da quell’inferno, sarebbe stata quella che passava per il camino dei forni crematori che erano ben visibili così come i carretti ricolmi di cadaveri che passavano nelle vie del campo costantemente. Rimasi circa venti giorni a Mauthausen sufficienti per capire che tra prigionieri non eravamo tutti uguali: russi e polacchi erano in qualche modo i più violenti e disumani. Venni quindi destinato ai lavori nella cava di pietra dove rimasi per quattro giorni prima di essere trasferito nella parte del campo denominata “Gusen 1” e quindi avviato al lavoro in un capannone della Messerschmitt dove venivano fabbricate le fusoliere degli aerei modelli 109 e 262. La sveglia era alle quattro del mattino ed il freddo era terribile per questa stavamo tutti il più possibile vicini per scaldarci a vicenda. Causa fame, freddo e scarpe rotte mi si congelò un piede. Mi venne in aiuto un altro prigioniero italiano Mario Elefante che mi aiutò a camminare fino a che a non si accorsero della mia situazione con il conseguente trasferimento in infermeria. Luogo che tutti evitavano in quanto considerato l’anticamera dei forni crematori che si trovavano al suo fianco. Mi ricoverarono per qualche giorno.
Nevicava e faceva un grande freddo. Tornai alla mia baracca e al lavoro. Le botte e le manganellate che arrivavano continuamente con una violenza disumana, assieme al freddo, alla fame, ai pidocchi, alla scabbia e alla dissenteria avevano creato una situazione tremenda che portava alla morte. Evitare la dissenteria era la cosa più importante. Per questo mangiavo del carbone di legno polverizzato. Da giorni si susseguivano i bombardamenti nelle città vicine.Ennio racconta la sua storia per più di due ore in modo instancabile e ricca di molti particolari fino alla liberazione degli Americani. Il primo maggio i soldati delle “SS” furono sostituiti da una milizia austriaca la “Volkstrurm” formata per lo più da soldati in pensione. Presto smise di arrivare anche quel poco di cibo che ci veniva fornito (zuppa di rape) e si mangiava a giorni alterni. Le nostre condizioni di salute erano drammatiche ed il 5 maggio all’appello vidi arrivare una jepp armata di mitragliatrice con soldati in divisa verde, alcuni dei quali con la pelle nera. Erano gli americani che entravano nel campo. Il campo era stato liberato ed io che mi sentivo ormai alla fine dei miei giorni pesavo 45 chili, sputavo sangue e non camminavo più fui preso sotto cura dal loro servizio medico e così oggi , all’età di 90 anni, posso essere qui tra voi a raccontarvi questo inferno di male assoluto che ho vissuto qui in europa. Perchè sono convinto che solo attraverso la testimonianza, di questi fatti, la storia non si ripeta più”.
Un sopravvissuto a Mauthausen per la dignità degli italiani, spesso ama ricordare che “se i ragazzi oggi possono esprimere liberamente le proprie idee su Facebook, è anche perché migliaia di ragazzi per la difesa della Libertà morirono”.